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Da quella sera del 9 Aprile 2010 tanti ricordi riemergono pensando a Leonardo Echeoni.


Cinque anni senza un amicoCinque anni fa, in Aprile, tentavo inutilmente da giorni di chiamare a casa e sul cellulare il Direttore: dovevo parlargli di alcune problematiche burocratiche legate all’esame da pubblicista. Dai e dai alla fine ad uno dei telefoni risponde Martina, la moglie: “Ciao Andrea, purtroppo Leonardo se ne è andato”. Ah. Da quel giorno cinque anni sono passati. Scrivere per ricordare qualcuno che ha avuto un segno nella nostra vita è di norma un mestiere di date, cariche e titoli, più qualche dato anagrafico. Ma il Direttore amava e amava e probabilmente avrebbe preferito un ricordo più impiastricciato, meno preciso ma che proviene più dal cuore che non dalla memoria.

Di sere passate in sua compagnia, a casa, con la moglie Martina, la figlia Erika e ogni tanto anche Leo, il figlio maggiore, ne avrò fatte una decina in tutto: ma cosa ricordare di più bello delle cenette affettuose che la paziente Martina intavolava per tutti noi? E i borbottii di Erika verso i rimbrotti del Direttore? O i vari liquoretti che presentava tutto orgoglioso, dal Citronello (ne ho ancora un fondo di bottiglia regalato da Martina che serbo con ricordo e non voglio finire) all’ “Anche”, il liquore il quale ogni volta che gli chiedevi se vi fosse dentro una pianta o un ingrediente lui rispondeva “Anche”. Ma soprattutto impossibile dimenticare questo abbraccio gioioso di affetto vero, di amore, di cui anche io in quei momenti lambivo e me ne lasciavo avvolgere.

Come scordare il suo pancione, dove la sera pazientemente dopo cena Martina infilava la siringa di insulina, per combattere un diabete che lui mi confessò una volta di ritenere “un cancro lento”. E la volta che mi raccontò di come se avesse conosciuto prima quel medico in Francia forse avrebbe potuto mantenere intatta la maggior parte della vista. Era incorreggibile e inarrestabile. Un leone puro, irruente, orgoglioso ma anche pieno di affetto. Pur se affranto da alcune malattie che alla lunga l’hanno vinto (mi confessò, l’ultima volta che lo vidi in ospedale al Gemelli, “sono stanco, non ho più le forze”; io avevo la mascherina sul viso per non passargli germi, lui non riusciva quasi a stare seduto sul letto) nei pochi anni che ho avuto la fortuna di frequentarlo l’ho visto comportarsi come se niente fosse. Intrecciava relazioni a 360°, gestiva migliaia di e-mail, andava a spettacoli, chiamava, chiamava, era veramente una fonte senza fine di energie (altro che il solare! avrebbero dovuto fare centrali Echeoniche!).

Mi dava consigli su come fare colpo sulle ragazze; mi raccontava di quando faceva da giovincello l’occhiolino alle signore nelle trattorie che regolarmente lo seguivano nei bagni; di quello che era riuscito a combinare ad Amsterdam con la banda dove suonava e la signora e sua figlia e il divano del marito; della famosa corsa in macchina a Sanremo accompagnato da un amico e da una bella signora. Era veramente una persona che ha vissuto il più possibile pienamente la sua vita. Mi raccontava di quando a Torino gestiva decine di redazioni di giornali; di quando un suo amico gli rompeva in continuazione le scatole col fatto che voleva farla finita e lui una sera, stanco, lo prese e lo portò su un ponte e gli disse: “Dai, adesso ti aiuto a buttarti giù, io che sono amico tuo non posso più vederti in questa condizione” e quello si rifiutò di buttarsi e il Direttore cominciò a strillargli che doveva finirla di rompere le scatole se poi non aveva nemmeno il coraggio di suicidarsi per davvero. Mi raccontò di quando finì in ospedale e facendo gli scherzi in continuazione alle infermiere e ai dottori salvò dalla depressione un malato che era lì in corsia con lui perché gli aveva insegnato a divertirsi e a ridere.

Mi spiegò una volta che gli piaceva abbracciare più a lungo del dovuto le persone che incontrava, anche quelli che non aveva mai visto prima, per lasciarli spaesati e poi perché era convinto con gli abbracci la gente si sentiva più amata e ascoltata (come dargli torto). Se passavi a trovarlo di mattina, era sempre nel suo garage che passava da un PC all’altro. D’inverno imbottito di sciarpe, cappello e cappottino per evitare gli spifferi, d’estate invece preferiva fare due passi nel giardino e farti vedere le piante e gli alberi che amava con cura (ah le storie che raccontava sul carrubo e sulla citronella). Poi ricordava il suocero, un pezzo d’uomo, ricordava il suo fico giù nel sud Italia doveva portava d’estate due secchi d’acqua al giorno e gli parlava amorevolmente, e quello cresceva sempre più rigoglioso.

Ricordo quando mi mandò a intervistare un primario dell’ospedale di Frascati che lo aveva curato e di cui serbava un ottimo giudizio; e ricordo anche quando mi invitò, in una delle ultime giornate prima della fine, a casa sua per leggere la sua autobiografia. Un piccolo file Word, niente di più. Mi misi lì davanti al vecchio schermo, il PC un po’ lento, nel garage, mentre lui là dietro stava all’altro computer a vedere e scremare le varie e-mail, affaticato e stanco.

Credo che pochi sappiano cosa fosse scritto in quel testo: era una testimonianza forte e sincera della sua vita, dai primi anni difficili dell’infanzia alle sue esperienze in falegnameria, fino al tragico evento che mise fine alla sua vita torinese e diede inizio alla sua lenta malattia. Lessi le parole di dolore che aveva scritto per descrivere tutte le cose di quella giornata tragica, le terribili parole che rievocano un dolore impossibile da gestire, e ancora oggi, al solo pensiero, mi viene da rabbrividire. Mentre trattenevo l’emozione mordendomi le labbra non potevo non pensare a cosa avesse dovuto passare quell’uomo pacioccone là dietro di me, alle mie spalle; mi voltai un paio di volte a guardarlo, la sua schiena enorme e irraggiungibile. Mi raccontò di come fosse andato via da Roma perché andava al bar e i soliti tipi parlavano di calcio; e di come poi tornato da Torino nuovamente a Roma avesse ritrovato sempre i soliti tipi al solito bar col solito calcio. Mi ricordo di quando portavo loro i barattoli di cioccolata Caffarel in regalo, piccoli doni in cambio di tanto affetto e amicizia da parte di tutti loro… ma che altro potevo portare io, nei miei vent’anni di vita?

Mi ricordo che al funerale incontrai Bianca, Donato, Sebastiano e Giuseppe. Ci ritrovavamo forse là davanti per la prima volta tutti insieme, vari parti del vecchio periodico “2duerighe”, e ci facemmo una bella chiacchierata, ognuno raccontava il suo pezzo di storia vissuta con il Direttore. Paradossalmente tristi e affranti eppure ancora là, con un’eredità “fisica e spirituale” da portare avanti. Alla fine l’eredità “fisica” non venne portata avanti da noi, il periodico “2duerighe” ha preso un’altra strada, differente dalla nostra ma anche essa figlia del Direttore: non posso non pensare per esso e per le persone che con i loro sforzi lo animano ogni giorno che ogni bene possibile. Martina e Leo hanno avuto il terribile e difficile compito di rimboccarsi le maniche e affrontare tutto quello che ha comportato la morte del Direttore.

Noi - ma va detto Bianca e Donato in realtà - abbiamo creato un progetto e un figlio del Direttore che portasse avanti la “filosofia” che ci aveva trasmesso. Dopo cinque anni di duro lavoro da parte di questo duo tosto, tostissimo, tutti noi abbiamo a disposizione un qualcosa di concreto che ha saputo resistere a tante problematiche e a tanti ostacoli; che ha rimesso in discussione più volte i suoi metodi di trasmissione dei contenuti, che ha visto andar via vecchi amici e arrivare nuovi compagni d’avventura, che nel tempo lentamente ha visto crescere anche il suo pubblico di “aficionados”.

Per questo duro lavoro, con poche ricompense e soddisfazioni, non posso che ringraziare principalmente Donato e Bianca: tanti altri hanno aiutato e anche molto ma senza di loro “ilTitolo” non sarebbe il grande prodotto che è oggi. Chissà, forse se avessi la possibilità ancora una volta di parlare con Leonardo, gli chiederei se anche “ilTitolo” è figlio suo… probabilmente mi risponderebbe: “Anche”. Un abbraccio forte a Martina, Erika e Leo, nel giorno del ricordo della perdita del loro amatissimo e insostituibile padre e marito.

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