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La tempesta è quella del collettivo Motus che reintepreta Shakespeare per parlare del futuro.


42° Biennale Teatro – Nella tempestaDopo William Shakepseare c'è Aimé Césaire. Dopo il poeta della Martinica c'è l'Uragano Sandy a cui fanno seguito la rivolta in Albania del 1997 e quelle scoppiate nel 2013 in Africa del Nord. Poi? Quali altre tempeste segneranno la storia dell'uomo? Questo percorso artistico-storico-politico è il viaggio che la compagnia riminense Motus sotto la guida di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò affronta dopo aver raccontato la rabbia della disoccupazione giovanile nell'Antigone di Sofocle.

Per “Nella Tempesta”, titolo dello spettacolo, presentato il 4 agosto nell'ambito del 42° Festival Internazionale di Teatro di Venezia, il testo di riferimento è appunto “La Tempesta” di Shakespeare. Questo, però, è solo il tessuto connettivo di base della messa in scena dei Motus.  Sul palco si susseguono 5 attori, Silvia Calderoni, Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese e Paola Stella Minni i quali non interpretano i personaggi shaeksperiani o almeno non del tutto. Risuonano nel teatro i nomi di Prospero, Calibano, Ariel, ma in realtà gli attori impersonano altro. In una scena disadorna, composta da un fondale bianco e da un faro posto in un angolo, l'elemento drammaturgico di spiegazione della vicenda è una coperta. Questa rappresenta la rinascita, la vita dopo il naufragio, l'inizio di una nuova vita.

È il simbolo del ristoro che rinfranca gli animi, ma è anche l'elemento propulsore della ricerca di nuovi lidi, di una successiva battaglia (o tempesta) che porta l'uomo a progredire. In ciò si racchiude il significato storico della tempesta a cui si aggiunge quello politico. I due drammaturghi intendono questo scenario come la costante ricerca di una migliore situazione di vita per l'uomo. Sulla scena, infatti, echi di rivoluzioni, voci di uomini che si sono liberati dalla schiavitù riecheggiano e appare, solo citato, anche Césaire. Nella sua “Une Tempête” ricostruisce la commedia di Shakespeare virandola sul rapporto tra padrone e schiavo, tra Prospero e Calibano, che si risolve in una dipendenza reciproca.42° Biennale Teatro – Nella tempesta

L'asse colonizzato-colonizzatore decade, quindi, come nella vita anche nel teatro. Nello spettacolo dei Motus non esiste più nessuna forma di prevaricazione o di controllo; il potere, Prospero, il Maestro, è il faro posto in un angolo che chiunque può spegnere con un click. Il teatro, quindi, diviene solo un grande spazio da condividere e vivere insieme in cui lo spettatore ne è parte attiva. Ecco perché nel finale il pubblico può prendersi, attraverso la coperta, uno suo spazio, sul palco, sulle gradinate, per terra, per appropriarsi di un pezzo di quel sistema che ormai, nelle filosofia Motus, non ha più alcun potere.

“Nella tempesta”, quindi, si segnala come un viaggio su quella linea sottile che divide politica, arte, e società. Casagrande e Nicolò forniscono le coordinate al pubblico per intendere e interpretare un cambiamento che sta avvenendo nelle vita di tutti i giorni, come nel teatro. La coperta, infatti, è anche il simbolo di una messa in scena a impatto zero in cui non servono grandi scenografie per comunicare, ma solo la parola, mezzo con cui scardinare il presente e spiegare al pubblico come costruire il proprio domani.

Paradossalmente ciò che rende lo spettacolo poco fluido nella trasmissione di questo sapere è il modo in cui è comunicato. É tanta la voglia dei drammaturghi di svegliare le coscienze del pubblico che lo immergono in una vera e propria tempesta di voci, movimenti, segni, metafore. La rappresentazione si svolge in un passaggio continuo e inaspettato tra i piani di analisi teatrale, storico, sociale da cui a fatica si percepisce il messaggio del lavoro. Improvvisamente si giunge alla scena finale, ossia l'appropriarsi del teatro da parte del pubblico, come un gesto isolato e non contestualizzato. Chi osserva si diverte ma capisce successivamente l'efficacia dello spettacolo.

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