Made in Italy: cosa rimane

Nel programma del Governo Meloni un dicastero dedicato: per la riconquista? L’approfondimento a cura di Mira Carpineta.


All’insediamento del Governo a guida Giorgia Meloni, tra le tante curiosità sollecitate dal nuovo corso politico, non è passato inosservato l’intento della Presidente sulla riconquista del patrimonio economico italiano che viene indicato come Made in Italy. Allo scopo di porre maggiore attenzione sull’oggetto di discussione, il Ministero dello Sviluppo Economico, affidato a Adolfo Urso, ha cambiato nome in Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

Cosa si intende con tale definizione, innanzitutto? La società di servizi e consulenza KPMG, già nel 2012 indicava il Made in Italy come il terzo marchio più noto nel mondo dopo Coca-Cola e Visa.  Nel 2017 il Made-in Country Index però rilevava che l’Italia era scivolata al settimo posto e nel 2022 un altro studio di Brand Finance posizionava il primo marchio italiano più noto nel mondo, cioè Gucci, nella posizione 108.

Cosa è accaduto in 10 anni? Il Made in Italy viene definito il marchio delle 4 A: Abbigliamento, Alimentare, Automazione, Architettura. Questi quattro macrosettori riassumono tutto ciò che è possibile riconoscere nel mondo come “fatto in Italia”. In questi settori infatti trovano casa alcuni grandi prodotti e produttori di origine italiana.

Secondo dati del 2018, l’export della moda italiana – abbigliamento, calzature e affini –  ha un valore di 48,6 miliardi di euro (CCIIAA Milano – Promos). Le esportazioni dell’agroalimentare si aggirano sui 40 miliardi di euro (Nomisma). L’industria della macchina utensile, della robotica e dell’automazione  ha raggiunto quota 6.110 milioni di euro (Centro Studi & Cultura di Impresa) e infine il design italiano ha generato un valore di 22 miliardi di euro (CCIIAA Milano – Promos), ma nonostante questi dati così positivi, qualcosa si è inceppato, a causa di alcuni punti deboli che ne hanno determinato un significativo rallentamento: una diminuzione della produttività, una Pubblica Amministrazione poco “friendly” con il sistema imprese a causa di una eccesiva e spesso insostenibile tassazione e burocratizzazione, poca innovazione e rapporti inesistenti o conflittuali con le parti sociali.

Questo clima poco favorevole alle aziende ha avuto come conseguenza una progressiva perdita dei grandi marchi del Made in Italy per due ragioni essenziali: la delocalizzazione e la cessione dei brand stessi. La delocalizzazione è stata una scelta delle stesse imprese per contenere i costi eccessivi legati ai motivi di cui sopra (eccessiva tassazione e burocrazia), ma la cessione ha prodotto dei veri e propri cataclismi economici per molti settori.

La mancata percezione, tutta italiana, va detto, del reale valore dei marchi tricolore ha originato, di contro, una corsa all’acquisto da parte di chi invece, questo valore lo aveva ben chiaro. In un’inchiesta di TGCOM24  del 2020 si legge che “ il marchio italiano piace a tutti e in tutti i settori” ed elenca una lunga serie di quelli passati di mano: Fiorucci, Versace, Krizia, Ferretti, Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori acquisiti da Edwin International, Michael Kors, Marisfrolg Fashion Co, Shandong Heavy Industry-Weichai Group, il fondo francese Kering; La Rinascente dalla compagnia thailandese Central Group of Companies; Loro Piana, Fendi, Emilio Pucci e Bulgari di proprietà della LVMH; La giapponese Itochu Corporation ha fatto suoi altri marchi Mila Schon, Conbipel, Sergio Tacchini, Belfe e Lario, Mandarina Duck, Coccinelle, Safilo, Ferré, Miss SixtyEnergie, Lumberjack e Valentino S.p.A. E questo per il settore moda.

Per il settore alimentare Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori sono di Lactalis, acquirente della Parmalat nel luglio del 2011, mentre gli oli Cirio-Bertolli-De Rica sono passati nel 1993 alla Unilever, che poi li ha ceduti nel 2008 alla spagnola Deoleo, già titolare di Carapelli, Sasso e Friol. Anche l’Eridania Italia, società leader nel settore zucchero italiano, è passata poi in mani francesi. La Birra Peroni, comprendente i marchi Peroni e Nastro Azzurro, è stata acquisita dal colosso giapponese Asahi Breweries, mentre la Star, proprietaria di diversi marchi come Pummarò, Sogni d’oro, GranRagù Star, è stata acquistata dalla spagnola Gallina Blanca del Gruppo Agrolimen. Motta– di Buitoni e Perugina dalla Nestlè.

Per quanto riguarda le imprese finanziarie, già nel 2006, il gruppo Bnp Paribas acquisisce Bnl. Nel 2007, Credit Agricole prende il controllo delle banche Cariparma Banca Popolare FriulAdria. Sempre nello stesso anno, Generali accetta l’offerta di Groupama per l’acquisto del 100% di Nuova Tirrena per 1,25 miliardi di euro. Anche Unicredit ha venduto Pioneer ad Amundi per un valore di 3,5 miliardi di euro.

Nell’industria, Italcementi è stata acquisita da HeidelbergCement. La Pirelli invece ha come nuovo socio ChemChina. A settembre 2016 la francese Suez ha acquisito parte di Acea mentre Magneti Marelli passa ai giapponesi di Calsonic Kansei. In campo energetico Edison entra a far parte degli assets francesi.

Nell’industria dei treni, il made in Italy non esiste più. La Fiat Ferroviaria è controllata da Alstom. AnsaldoBreda è stata invece venduta alla giapponese Hitachi da parte di Finmeccanica. Per gli aerei, Etihad ha acquisito per tre anni Alitalia mentre la Piaggio Aerospace è dal 2014 in mano agli arabi di Mubadala. Per Lamborghini, invece la nuova casa è in Germania presso il Gruppo tedesco Volkswagen (dati dal master biennale in giornalismo della IULM a cura di Ilaria Quattrone). Italo è passata al fondo americano specializzato in infrastrutture Global Infrastructure Partners III funds, mentre sempre nei treni ad alta velocità, AnsaldoBreda è stata acquisita dalla giapponese Hitachi. Infine, per le infrastrutture, Telecom è controllata dalla francese Vivendi. Ma l’elenco è ancora lungo se si pensa che il numero dei marchi ceduti si aggira sui 120.

Unica eccezione a questa tendenza il caso Barilla, venduta nel 1971 a una multinazionale americana dai fratelli Pietro e Gianni Barilla per ragioni familiari, ma già otto anni dopo riacquistata dallo stesso Pietro. Questo mare magnum di imprese cedute e acquistate consolida, a quanto pare, il concetto della percezione del valore del Made in Italy che vede da una parte il Bel Paese che se ne priva e dall’altra il mondo che lo cerca e vuole possederlo. Oggi, con la nascita di un ministero dedicato, saprà il Governo Meloni invertire la tendenza e recuperare quel valore?

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