L’odore della vergogna in “Parasite”

Arriva sugli schermi italiani il film vincitore dell’ultima Palma d’Oro: il capolavoro dell’apprezzato autore sudcoreano di “Snowpiercer”, Bong Joon-ho.

Il film che mette alla berlina le feroci dinamiche di scalata sociale tra i diseredati, ha battuto importanti candidati al prestigioso premio come “DolorYGloria” di Pedro Almodovar, e “Il traditore” di Marco Bellocchio, suscitando divisioni nella Giuria della kermesse, che comunque ne ha riconosciuto l’alto valore artistico. I protagonisti, i Kim, non sono mai veramente pezzenti, e i ricchi, i Park, non sono totalmente immacolati.

Tra invidia, capitalismo e una rilettura contemporanea del dostojevskijano “Memorie dal sottosuolo”, la pellicola di Bong Joon – ho, è una commedia nera molto divertente e veloce (e anche feroce), che riesce a coinvolgere dal primo all’ultimo fotogramma, anche per l’efficace struttura narrativa piena di colpi di scena.

La sceneggiatura è solida e molto articolata, come l’imponente e complessa architettura della villa dove è ambientato il 60% dell’azione. Questi brutti, sporchi e cattivi che sopravvivono con il sussidio della disoccupazione, riescono a penetrare in questa meravigliosa casa del signor Park, e a “vivere” una vita che non è la loro.

Nei bassifondi di Seoul (filmati con una maestria registica tesa a sottolineare questa differenza tra mondo alto mondo basso), la famiglia Kim, molto povera, ma nel contempo molto unita, è caratterizzata da padre, imprenditore fallito, due figli, molto colti e la madre altrettanto determinata, tenta di attaccarsi con la scusa del lavoro, allo stile di vita irraggiungibile (almeno all’apparenza) della famiglia Park, molto diverso per modi e concezione del vivere, che non vuol dire per forza positivo.

Ma non dimentichiamo che anche le fortezze più grandi, belle e protette, hanno i loro sotterranei con altra variegata umanità pronta a fare da concorrenza, soprattutto in un’esilarante scena con la canzone di Gianni Morandi, “In ginocchio da te”.

Quest’attenzione al cinema del conflitto sociale, ha radici anche nel passato, soprattutto in film come “Hollywood Party” di Blake Edwards e “La regola del gioco” di Jean Renoir.

Nell’anno di “Joker” e dello scorsesiano “The Irishman”, “Parasite” è uno di quei film che farà parlare di sé ai prossimi premi Oscar, raccogliendo probabilmente nomination ambite come miglior film straniero, miglior regia e soprattutto miglior sceneggiatura.

Rappresenta uno di quei rari casi in cui il cinema coreano fa breccia presso il grande pubblico in termini di incassi, e non relegato solo all’apprezzamento della critica come quello per gli immensi Park Chan Wook e Kim Ki Duk.

Francesco Maggiore

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