Sanremo 2021: non si poteva fare di più, ma di meno sì

Circa 26 ore di messa in onda in cinque giorni, una media del 46,24% di share e 8.466.200 di spettatori, un pubblico sempre più giovane che sembrerebbe essersi spostato sulle piattaforme digitali abbandonando la classica Tv.


Svecchiare la platea di Rai Uno era quello che si voleva? Certamente sì, ma allora ragionare ogni giorno sui dati di ascolto alla vecchia maniera non ha più alcun senso. Che non sarebbe stato semplice lo sapevamo tutti, lo si è compreso già a gennaio quando dopo il cambio di mese di messa in onda è partito il “caso” pubblico in sala, oppure quando sono iniziate le prime defezioni, Andriano Celentano, poi Benigni, poi ancora Morandi e a poche settimane dall’inizio Naomi Campbell.

Non è un anno normale questo, non lo poteva essere dunque il Festival. È stato giusto mandarlo in onda lo stesso? Sì, è stata una scelta corretta e non solo perché si è dato lavoro a tante persone, addetti ai lavori che per cinque sere hanno smesso di stare forzatamente fermi, ma anche e soprattutto perché bisognava mandare un segnale di resilienza, un messaggio per far capire che in qualche modo è necessario iniziare a pensare di rialzarsi, anche se la pandemia c’è e come una spada di Damocle incombe su tutti noi.

Per una settimana sola la Tv ha cercato di non raccontare solo i numeri del Covid, ma è andata oltre, per soli sette giorni si è provato, come si è potuto, a respirare a pieni polmoni per ricaricare le batterie di una vita in bilico da 365 giorni.

Al netto di tutto questo dei problemi ci sono stati anche in questa folle edizione, questioni che già l’anno scorso si erano presentate e che esulano dalla situazione del momento. Parlo della lunghezza delle serate, esagerata, inutile e di difficile comprensione. È complicato trovare il motivo per cui si debba sempre oscillare tra l’una e mezza e le due e mezza come orario di chiusura, anche se sul piatto hai poco e la narrazione, già monca, così facendo ne risente ancora di più.

Perché diciamoci la verità, i contenuti extra, quelli che avrebbero dovuto fare da collante tra un’esibizione e l’altra, hanno fatto spesso acqua da tutte le parti e là dove ci sono stati si sono dimostrati prolissi e ancora una volta hanno avuto come conseguenza quella di far perdere il focus sulla gara.

Lo abbiamo visto benissimo nelle prime due serate dove il ritmo era claudicante e ci si chiedeva come fosse possibile chiudere così tardi, pur avendo 13 cantanti più 4 giovani in esibizione, lo si è percepito meno nelle serate a seguire quando le canzoni in gara erano almeno 26, a dimostrazione che la musica può tranquillamente reggersi da sola sulle sue gambe.

E poi basta, basta monologhi ripetitivi, nei festival successivi al 2013 tutti si sono sentiti in dovere di portare su quel palco qualcosa che riguardasse le donne, in molti hanno toppato, regalando al pubblico pezzi scialbi e senza alcun senso. (Per questa edizione citofonare Palombelli!). La donna la si esalta in altro modo, non raccontandola in modo banale, ma dandole la possibilità di dimostrare quanto vale, come ha fatto per esempio Matilda De Angelis (che sarebbe potuta rimanere per tutte e cinque le serate e il pubblico lo avrebbe sicuramente gradito). Sanremo è un megafono, un amplificatore di sentimenti, se lo si usa male è un disastro, se lo si usa bene può fare la differenza. In questo senso lo ha capito bene Antonella Ferrari, il suo sì che è stato un monologo da urlo, nel senso buono della parola.

Di questo Festival salvo la voglia e la grinta che ci hanno messo tutti per portarlo a casa, ma miracolosamente anche un nutrito gruzzoletto di canzoni e conscia di attirarmi le ire di molti, io salvo persino Ibrahimović, sì perché sfido chiunque ad essere prelevato da un campo di calcio e ad essere buttato su quel palco conoscendo poco la lingua ed essendo consapevole che gli occhi sono tutti puntati su di te, pronti a massacrarti. Il suo ruolo era quello di un Ibra al cubo che doveva accentuare i luoghi comuni che circolano su di lui, ma poi è uscito qualcosa di più.

Non salvo però la regia, sconnessa e poco coinvolgente, incapace si aggiungere un racconto per immagini a quello musicale. Boccio anche l’audio, perché va bene “il bello della diretta”, ma non è possibile inciampare su problemi tecnici così madornali.

Non è stato il Festival classico, la situazione, anche emotiva, non lo avrebbe permesso, gli ascolti ne hanno risentito, sicuramente per via di una controprogrammazione che non si vedeva dal 2014, ma probabilmente ha pesato anche il clima di tensione prefestival che si è generato nel pubblico incapace di comprendere come si potesse discutere sul riempire la platea di un teatro quando tutto il mondo è fermo, così come la poca voglia nelle persone di divertirsi e svagarsi un po’, perché è vero oggi i problemi sono altri, ma è altrettanto vero che non si può continuare solo a sbattere la testa contro il muro in attesa che qualcosa cambi.

Tutto questo si è sentito e percepito, ma un grande plauso è doveroso nei confronti di Fiorello che ha saputo reinventarsi, fino a qualche anno fa era impossibile pensare ad un Fiore così. Si è messo in gioco, si è divertito e ha cercato di far divertire, lo ha fatto con la consapevolezza che davanti a lui c’erano solo delle telecamere, non un feedback, non un braccio su cui aggrapparsi per fare show, ma ce l’ha fatta portando a casa persino il meritato premio Città di Sanremo.

È mancato ritmo a questo festival? Sì, ma non sempre. Si poteva fare di più? No, perché si è camminato su di un filo sottilissimo. Di meno? In durata assolutamente sì. Amadeus ha detto che non ci sarà, almeno per ora, un Ama-Fiore Ter, e lo capisco, meglio uscire di scena così, ricordati come gli “eroi” che hanno portato a riva il Festival più a rischio naufragio della storia.

Enrica Leone

 

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