“Play” condisce con spezie indiane un piatto che rimane pop, riconoscibile e coerente col percorso del cantautore britannico, abile a proporre una propria narrativa sincera e una cifra musicale di larga presa.
Il rosso di Halifax (cittadina del Regno Unito) fa musica da ormai una ventina d’anni (ora ne ha 34, fate un po’ i conti), è una popstar da cifre stellari, che si tratti di concerti o di streaming, eppure in musica parla di fallimento, famiglia, perdita di persone care, oscurità, crisi e rinascita.
Non so dirvi se “Play”, il suo ottavo album, piacerà più o meno dei precedenti, ma di sicuro è un disco che gli assomiglia tanto, dove troviamo le sue classiche ballate, qualche contaminazione derivata dal suo essere giramondo in perenne tour, e soprattutto tanti racconti autobiografici e sinceri.
“Opening” tiene fede al suo titolo spiazzandoci con un rap e un racconto crudo: “C’è un tempo per piangere e uno per piegarsi, c’è un tempo per resistere e uno per lasciarsi andare, un tempo per correre tra le braccia della speranza”.
Questa apertura racconta del buio che Ed Sheeran si è lasciato alle spalle, quando ha perso un fratello e un caro amico, quando sua moglie ha dovuto combattere contro una malattia, ma a partire dalle successive traccia “Sapphire”, “Azizam” e alla tribale “Symmetry” si approda a un presente finalmente sereno, colorato e nuovo, con inaspettate influenze indiane.
Al disco, terminato proprio a Goa, hanno collaborato diversi musicisti indiani tra i quali il pluripremiato Arijit Singh, ma questo aspetto è in realtà marginale quando si va ad ascoltare l’album nella sua interezza, che suona molto più vicino a suoi intimi esordi rispetto a qualche sua deriva più caciarona del periodo insieme a produttori come Pharrell o Martin Garrix.
“Old Phone” racconta di quando ha ritrovato il suo vecchio cellulare, ed entrando nella sua memoria ha trovato nomi di persone ormai perse di vista, conversazioni con amici oggi morti e alla fine ha deciso di riporlo nel cassetto perché nulla di buono giunge dai rimpianti.
“Camera” è il brano più intimo, è quello che racconta il rapporto di Ed con la sua compagna, mentre “A little more” viaggia su un collaudatissimo terreno soul, in zona Mark Ronson ed Amy Winehouse, anche se il testo è amaro e tutt’altro che rassicurante.
“Don’t look down” sconfina nella dance anni 90 / 2000 dal tocco londinese, al contrario “The Vow” è una retorica promessa di amore eterno che diventerà suonatissima nei matrimoni, uno dei motivi per amare alla follia oppure odiare a morte Ed Sheeran.
Il rosso di Halifax ci sa fare, riesce a fare pop senza essere troppo plastificato, forse grazie al minimalismo della produzione, portando anche su disco l’abitudine di affrontare spesso il palco da solo voce e chitarra, fatto sta che è riuscito a sconfiggere quel declino produttivo che sembrava riguardarlo qualche anno fa’.
Nel pop mondiale forse solo Ed Sheeran e Taylor Swift continuano da anni a fare musica, a fasi alterne, riuscendo però sempre a raccontare se stessi vendendo un prodotto industriale ma che riescono in qualche modo a spacciare per artigianale.
Questa è un’abilità rara che denota una forte personalità, determinazione ed equilibrio. Credetemi che non è poco.
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